Chicco

di Giulia Bastoni

“Dalla finestra entra un po’ il mondo… che io cerco anche di tenere un po’ fuori per
mantenere un territorio di osservazione. E così vedo il vedibile come una specie di
scenografia di tetro dove cambiano le cose con il cambiare della luce…
Questi cambiamenti di luce sono i temi delle mie poesie. Come se fosse tutta un’unica
poesia in questa veduta che cambia… c’è il tempo che passa… e nel frattempo gente che
muore, gente che nasce, ricordi che tornano e poi spariscono come nuvole.”

Sono le parole di chi la vita l’ha ammirata, amata e raccontata da uno scorcio di finestra su San Giacomo dell’Orio.
Sono le parole di Francesco – Chicco – Giusti, poeta e attivista veneziano che, lo scorso 5
giungo, ha lasciato un vuoto incolmabile negli occhi e nel cuore di chi l’ha conosciuto.
“Capelli lunghi, barba alla Rasputin, giacche di lana e parlare lento, mai casuale: aveva un
aspetto a metà tra un poeta russo e un guru; un’aria profetica.”

L’amico Mario Santi lo descrive così.
Afferma che Chicco stava male da tempo, ma erano tutti così abituati nel vederlo
convivere con la malattia che, questa, si era fatta parte integrante della sua figura. La sua
morte è stata una sorpresa prima ancora che un dolore per tutti.

Ora, io, non scrivo questo articolo con la presunzione di interpretare, parafrasare o anche
solo descrivere Chicco in quanto artista.
Butto giù queste righe nel tentativo di rendere omaggio, per quel poco che posso, a una
vita che ha saputo farsi piccola e silenziosa per essere degna portavoce di cose altrettanto
piccole e silenziose.
Roba da poeti, insomma.
O forse no?
Forse roba che riguarda tutti perché, forse, è proprio nelle pieghe del quotidiano che si
celano le più grandi verità e, magari, è proprio questa abitudine a guardarle che ci
impedisce di vederle.

Chicco ha raccontato l’epopea dell’umanità attraverso versi asintattici su albe e
crepuscoli, masegni e betulle, vocii e garriti di gabbiani.
E Venezia è stata la sua più grande complice in questo. Perché Venezia, se la si sa
guardare, è metafora ossimorica del mondo. Venezia disvela un universo e, due ore dopo,
o due calli a fianco, il suo diametrale opposto.
Forse è Venezia che ci rende tutti un po’ più poeti.

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