INSONNIA

di Nicolò Luchesa

Quella sera sentiva che si stava ammalando, come se nella sua testa qualcosa fosse andato in cortocircuito, o in sovraccarico.
Mille pensieri si sovrapponevano tra loro, non riusciva a finire di affrontarne uno che ecco se ne affacciava immediatamente un altro. Si sentiva sempre agitato, in uno stato di intorpidimento fisico e psicologico. Rimuginava, rimuginava e non ne usciva. Rimuginava, rimuginava, era come se si trovasse in una stanza buia, angusta, claustrofobica tipica dei romanzi russi, dove gli unici rumori o compagni di stanza sono scarafaggi, ratti e pensieri malsani. Non riusciva a fare altro che rimuginare, era bloccato, non agiva, aveva paura, ansia. Che fosse già malato? Non faceva altro che riflettere sulle cose che poteva fare, e questo lo portava ad uno stato di insana agitazione febbrile. Tremava, annaspava, fuggiva dalla realtà con i classici amici dell’uomo malato e fragile. Era come se fosse un bicchiere di cristallo, ogni contatto, seppur minimo e lieve, gli pareva un pugno nello stomaco. «Magari fosse in faccia!» pensava. Almeno così avrebbe avuto più possibilità di svenire o inebetirsi. Invece era un fastidiosissimo pugno nello stomaco, una morsa che lo comprimeva, lo schiacciava, facendogli mancare il respiro. Pensava, pensava, rimuginava e rimuginava ancora, non sapeva più nulla, dubitava di tutto, soprattutto di se stesso. «Che la ragione del mio dubitare di tutto sia dubitare di me stesso? Ne dubito. Ahia! Così sto di nuovo dubitando, che cosa posso fare?» si chiedeva angosciatamente. Non sapeva più dove fosse, si era smarrito nella vastità delle lande del proprio pensiero, non si sentiva più a casa, aveva perso il legame con il proprio focolare. «Non so più dove vagare, ma in questo momento sto vagando o sono fermo?» diceva fra sé e sé. Era proprio un uomo sano. Ma come sano? Avevamo detto che era malato, ma se gli altri fossero malati e lui no? Come si fa a capire, a distinguere? Dove sta la leggerezza dello spirito? Egli non sentiva alcuna leggerezza, tantomeno il tanto amato spirito. Percepiva solo un’insostenibile pesantezza, «Mi manca l’aria, come se stessi affogando, forse sto affondando, dovrei controllarmi i piedi, potrebbe essere che mi ritrovi agganciato un masso di cemento. Ma come, dove sono i piedi? Ah già dimenticavo è tutto frutto di un mio delirio all’interno della mia testa! Sono proprio uno stupido». «Rimuginare, rimuginare, bah mi sono perso, a che punto siamo? Perchè continuo a pensare con questa intensità?» si chiedeva disperandosi. «Vorrei potermi fermare, accostare un attimo per prendere una boccata d’aria, ma il mio autista non ne vuole sapere. Ma, aspetta, da quanto sono in viaggio, e con un’autista per di più?!» si domandava agitandosi sempre più. «Meglio far finta di niente, anzi forse meglio fare il sornione, tanto sono bravo, visto che non mi ricordo quando e come sia salito su un mezzo, e soprattutto chi sia questo dannato autista!». Decise di fare qualcosa, così tentò di rivolgergli la parola «Mi scusi signor autista, penso di essermi un attimo assopito, dove ci troviamo?». Silenzio, attese. «Niente, non mi risponde, non mi degna nemmeno di uno sguardo, è proprio un cafone. Devo riuscire a vederlo almeno in viso!». Provò allora a pizzicarlo, per vedere cosa sarebbe successo, ma accadde qualcosa di anomalo e inaspettato. «Ahia!» urlò insieme ad un forte gemito di dolore. «Ma come è possibile, ho pizzicato l’autista, che non ha fatto nemmeno una smorfia, mentre io invece ho sentito quel classico, odioso, insopportabile dolore da pizzicotto. Aspetta, se io ho sentito questo fastidio… no, non può essere. Allora sono io! Ma dove mi sto portando?!».

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