Intervista a Ruggero Romano

di Giulia Bastoni e Amanda Milaqi

Vuoi partire con la presentazione di te stesso? 
“Mi chiamo Ruggero Romano e sono un documentarista. Amo follemente il cinema, questo amore mi ha spinto ad andare in Canada quando avevo 19 anni per trovare il mio linguaggio e il mio spazio nel cinema. 
Poi, dopo 5 anni di lavori e documentari, mi sono chiesto “ma adesso, nel 2021, qual’è la prossima comunità che ha davvero l’opportunità di condividere un messaggio di rilevanza globale?” e pensandoci su ho capito che era Venezia, e che quella era la mia chiamata. 
Sentivo il bisogno di venire qua e cercare di ascoltare quella che è la reazione di Venezia a tutte le sfide a cui è sottoposta e capire come le comunità che la popolano se ne prendono cura. Città che è poi archetipo di tutte le altre, poiché ne esemplifica perfettamente le dinamiche.
Quindi nulla, ho sentito una forte chiamata a questo progetto e, nel farlo, mi sono innamorato di questa realtà e mi sono trasferito qua… e  adesso sto da dio, sono in Giudecca.”

Ci sono state delle esperienze personali o lavorative che ti hanno portato ad occuparti di cinema per il sociale?
“Questa è una bella domanda…
Cavolo sì.

Tutto è nato quando, in Canada, dopo che ho finito il mio anno di studio tecnico del cinema, ho iniziato a lavorare come lavapiatti in un ristorante. Questo ristorante si trovava al confine tra il distretto finanziario e il distretto della comunità dei senzatetto. Io mi ricordo che arriva uno chef urlando: “Hey man! Throw the fucking organic man!” e allora prendo l’organico, corro in  strada per andarlo a buttare e mentre lo getto via  un coltello – che era caduto nel sacco – lo rompe facendo cadere per terra tutto l’organico. Mi sono ritrovato in ginocchio a raccogliere tutto questo organico e in quel momento ho pensato: “cavolo, questa è la cena di qualcuno. Lo squilibrio sociale di questa città è letteralmente nelle mie mani”. 
In quel momento mi è caduto il cuore e mi è rimbalzato in petto con un senso di scopo incredibile. Mi sono detto: “ok Ruggi, se tu vuoi fare cinema non puoi fare film giusto per farli… devi in qualche modo contribuire, devi in qualche modo andare a interagire con gli squilibri che ti fanno sentire male.” 
Mi sono chiesto cosa potessi fare io per quella gente e ho capito che dovevo farli parlare. 
Così, nel tempo libero, andavo in strada ed intervistavo la comunità. 
Il sogno era quello di scendere in strada ed amplificare il grido di quella comunità attraverso un film. 
Due anni dopo quel sogno è diventato realtà. Abbiamo portato i senzatetto nei cinema, in TV, in radio. Questo mi ha aperto un orizzonte sul potenziale del cinema.”

Bellissimo…
Come ti sei sentito accolto dalla comunità di Vancouver una volta che prodotto questo progetto così singolare?
“Beh è stata un’esperienza incredibile. Era davvero un sogno. Perché quando sogni qualcosa significa che non hai nell’immediato i mezzi per realizzarlo. Quello sennò sarebbe uno scopo. Quello per me era un sogno. È stato un processo di apprendimento e di scoperta nella produzione di un documentario totalmente indipendente, che veniva dalla terra. Ed è stato un dialogo con una comunità che è poi diventata la mia casa. E quello  è stato l’unico posto in cui ho trovato sostanza, tra la frenesia di Vancouver.
La prima volta che sono entrato nel centro comunitario della Downtown Eastside c’era un signore in fondo ad un tavolo, vicino alle scacchiere. Arrivo lì, lui si prende qualche secondo per guardarmi e poi mi chiede: “quale vuoi?” in mano aveva solo un arancio ed una banana, entrambi frutti con la buccia perché così non si sporca la parte edibile. Quello è stato il primo invito. Poi da lì si è aperto un mare di storie, situazioni particolari, di vita molto saturata che mi ha dato la base di vissuto sulla quale io tutt’oggi torno a riflettere sul perché faccio quello che faccio.”

Sei riuscito a trovare un filo conduttore tra il tuo progetto di Vancouver e quello di Venezia?
“Sì, ci sono delle somiglianze ma anche delle differenze molto nette. Perché se a Vancouver ho fatto un film su una comunità che non aveva una casa, a Venezia mi ritrovo a raccontare la storia di una comunità in difficoltà perché le case sono vuote. 
C’è sempre una ricerca, in qualche modo, di una riappropriazione degli spazi dando un’importanza rilevante alla resilienza delle persone.
Le persone hanno una forza davvero incredibile… soprattutto nei momenti di difficoltà più alta.
Da qui nasce anche la fiducia che l’essere umano può avere nei confronti del futuro o di come lo approccerà.
Questo è quello che mi piace esplorare nella natura umana dei progetti che mi chiamano. Dico “chiamano” perché è proprio un bisogno che sente “non posso non fare questo film”. 
Quindi sono stati viaggi davvero simili dal punto di vista del rapporto umano anche se diversi a livello tematico. Questo perché penso che ogni società stia vivendo gli effetti diversi dei medesimi problemi.”

E invece com’è stata la scoperta della comunità veneziana? Cosa ti ha affascinato di più oltre la resilienza di queste persone? Cosa pensi di aver dato alla comunità veneziana con il tuo progetto?
“Beh io non so cosa ho dato, toccherà alla comunità veneziana dirmi cos’è stato accolto.
Sicuramente quello che ho imparato tantissimo è che è impossibile per qualsiasi film raccontare interamente Venezia nel suo complesso così sfaccettato. Ma penso anche che il film non debba aspirare a raccontare la grande immagine nel suo piccolo, bensì a raccontare come il suo piccolo rientra nella grande immagine. Quindi quello che ho raccontato nel film sono 6 realtà accomunate dal medesimo contesto – che è Venezia – che mi hanno ispirato tantissimo. Tutti i personaggi, tutte  le realtà, tutti i collettivi possono essere un archetipo di una comunità o di un gruppo di persone più grande ma ciascuno di essi rimane pur sempre un individuo, Quindi è impossibile spennellare sopra l’intera comunità veneziana.”

Una cosa che mi sembra di notare è che appunto siano tutte realtà abbastanza scollegate fra loro. Secondo te questa frammentarietà che che caratterizza la città è considerabile un limite?
“Questa è una domanda davvero profonda alla quale non credo di avere una risposta.
Ma una cosa che posso sicuramente dire è che ho notato che tale natura frammentata ricalca la natura della città stessa, anche nella sua storia. Penso che, in quantità diverse, tutte le città lo siano.
Poi comunque sono le persone stesse che fanno da legante fra le varie realtà.
Credo che la proposta del film sia proprio quella di voler percepire questa frammentarietà come un potenziale. Riconoscere che nonostante la diversità di come ciascuno si approccia alla città c’è in realtà, alla base, una risonanza di valori.
Quando c’è una comunità che vive su una risonanza di valori allora quella comunità è viva.
Perché lavorano per la stessa direzione della visione, anche se le visioni specifiche sono diverse. Quei valori fanno centro di gravità.”

Secondo te la prospettiva di tutte queste persone che abitano Venezia è quella di rimanere?
“Qui stiamo parlando di percezioni parziali di una città, nessuno potrà mai averne una visione completa. 
Proprio per questo è necessario un dialogo tra le varie realtà.
Forse… quello che sento di dire, è che si è sempre parlato di Venezia come di una città decandente… no? E questo perché la letteratura ha un impatto enorme. 
Ecco io, esplorando i diversi lavori e le diverse storie legate a questa città, ho sentito la necessità di raccontare invece le realtà che non si arrendono a questa narrativa di Venezia. Perché ce n’è necessità.
I personaggi principali dei vari filoni narrativi sono tutti under 30. Perché secondo me le nuove generazioni hanno tutte una visione sul futuro, perché hanno proprio la necessità di averla. Ed è da quella necessità che sono sempre nate le invenzioni e i cambiamenti più importanti… è da lì che parte quell’urlo, quella proposta per una visione diversa.”

Verissimo…
E ad oggi hai qualche nuovo progetto in mente?
“Eh, credo di avere almeno altri 5 film che vorrei fare…
Però penso che in questo momento io debba un attimo respirare e distaccarmi.
Perché la produzione di film è un processo ciclico che ha bisogno, di volta in volta, di maturare. 
Sicuramente vivere qua è incredibile perché la qualità di vita è molto alta. E questa qualità di vita mi sta dando una grande serenità e l’opportunità di riscoprire una mia relazione con il cinema. 
Sono davvero super ispirato e super grato.”

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