CHIACCHIERATA BUGIARDA

di Anna Dameri

Bugiardini è un progetto editoriale di Elena Roccaro, studentessa del corso magistrale Arti Visive dell’Università IUAV di Venezia. Nel progetto vengono proposti dei percorsi di cura pratici-poetici, alternativi ai metodi convenzionali di trattazione del malessere. La scatola si presenta clinica, asettica e anche un pò timida a differenza del suo contenuto, agglomerato ed esplosivo. All’interno dei Bugiardini si possono trovare disegni, foto, poesie, scritture alternative e tre testi curatoriali, uno dei quali composto da Valentina Rizzi, dottoranda in Arti Visive a IUAV e co-fondatrice della newsletter “NewStellar”, con cui Naransa ha collaborato per questo articolo che altro non è che il riassunto di una piacevole “chiacchierata bugiarda”.

15/06/2023
16.30
Chiostro dei Tolentini, Venezia

Come è nata la vostra collaborazione?

Elena:
Abbiamo un modo di sentire molto simile, molto forte. Quando ci siamo conosciute, parlando dei nostri progetti, anche se studiamo e lavoriamo in vari ambiti dall’editoria, alla performance, all’architettura, abbiamo capito che condividevamo gli stessi modi di percepire, e per entrambe il corpo è uno strumento fondamentale usato come veicolo di linguaggi, come sismografo e dispositivo per leggere, attraversare, abitare lo spazio e gli eventi in esso contenuti.

Valentina:
È nata molto naturalmente perché in questi mesi di vita ci siamo accompagnate, consultate e abbiamo trovato molta affinità a livello di pensiero, lavorativo e progettuale. Quando Elena mi ha proposto di scrivere un testo curatoriale per il progetto è stato il riconoscimento di qualcosa che avevo visto nascere. Elena ed io siamo andate di pari passo in questo processo, sia a livello personale che nello sviluppo del progetto; all’inizio, le prime volte che Elena mi parlava dei Bugiardini, erano un magma di pratiche, per questo hanno poi preso il nome di “Pratiche/poetiche di re-incorporazione”, perché c’è da un lato la poesia, dall’altro una riabilitazione del corpo, in principio del suo corpo, in seguito c’è stata un’apertura e una maturazione tale del progetto da divenire possibilità alternativa di cura che lavora col corpo in senso materico, anche tramite l’editoria.

Come nasce il progetto “Bugiardini. Pratiche/poetiche di re-incorporazione”?

Elena:
È una ricerca nata a settembre, quando ho iniziato ad avere dei malesseri fisici e psicosomatici notevoli. Ho sentito la necessità di accogliere questo dolore e di dargli un altro corpo oltre al mio, dargli una forma per cercare di capirlo senza negarlo, un corpo editoriale in questo caso. Sentivo un corpo molto disarmonico e anestetizzato: volevo ridiventare protagonista sia del mio dolore, che del mio processo di guarigione. Come reazione spontanea a questa situazione ho iniziato a produrre tantissimo materiale, scrivevo, sovrascrivevo, documentavo attimi di malessere, sperimentavo con il corpo in esercizi di vario tipo, tra cui una pratica performativa che si chiama “poesia irrazionale”. In questi esercizi si cerca di parlare in maniera irrazionale, improvvisata e scollegata, trascurando i codici linguistici consueti; attraverso la meditazione seguendo il proprio flusso di emozioni si enunciano parole apparentemente senza senso. Rileggendo gli esercizi documentati, a mente lucida, mi sono resa conto del potenziale di questo materiale: era un linguaggio metaforico e poetico molto forte, andava solo un pò redatto e rielaborato. Così ho trattato il mio malessere come materiale organico.
Oltre a testi e poesie c’è anche un lavoro di traccia grafica e pittorica: ho iniziato a sovrascrivere delle immagini che per me avevano un valore, a comporre per stratificazione, somma, sottrazione. Volevo risemantizzare e riattivare delle narrazioni in altre versioni; è stato un vero e proprio accumulo, che mi ha portato anche a una saturazione.
A gennaio ho iniziato il processo di redazione e selezione: è stato un lavoro di sintesi che ha portato alla forma finale dei Bugiardini.

Perché proprio il formato dei Bugiardini?

Elena:
È un formato già utilizzato da molti. In questo caso era il formato ideale per rendere e restituire tutto questo materiale e contemporaneamente esorcizzare il malessere, anche prendendomi un pò in giro. 
Il Bugiardino, che si chiama così solo in Italia, è una forma iconica: è il foglietto illustrativo dei medicinali, in cui vengono scritte una serie di indicazioni che sembrano fatte per corpi universali; reazioni e controindicazioni per corpi normali, normati, in cui il dolore viene normalizzato, quando in realtà ogni corpo esperisce in maniera singola e differenziata. Ogni corpo dovrebbe decidere il proprio percorso di guarigione; ogni corpo dovrebbe avere in primo luogo questa consapevolezza, in secondo luogo questa scelta.
Sulla pagina si crea una coreografia, il testo e le immagini abitano la carta, è così che l’ho concepito, anche per la necessità di avere possibilità di azioni fisiche-motorie con questo oggetto. Fondamentale per me è l’apprendimento del contenuto; volevo che si creasse una relazione intima con il lettore, ovvero che il lettore abitasse questo spazio e, attraverso il suo agire motorio, assimilasse il contenuto in maniera del tutto personale.
Per me è stata essenziale anche la questione della poesia a cui ho iniziato ad approcciarmi. Ad oggi qual è il suo formato standard? Quale spazio occupa nella carta? Ci sono anche casi di restituzione orale della poesia, ma in questo caso si parla di applicazione su una superficie, sull’oggetto editoriale, e così mi è sembrato di ridarle una presenza quasi corporea, tangibile; queste parole erano molto corpose, materiche, non potevano altro che stare in una composizione del genere.

Valentina:
È un po’ come se, abitualmente, avvenisse una standardizzazione dei corpi attraverso la cura. I Bugiardini, come sono letti da Elena, sono una ristrutturazione di questo prodotto universale, per questo anche il senso della cura viene destrutturato, non solo per svincolarlo da una logica di produzione, ma per guardare alle molteplici possibilità a cui si può accedere come lettore. 
Il focus di questo progetto è il lavoro sul corpo e con il corpo. Il corpo non è inteso solo come corpo fisico, ma come corpo di persona, con una storia. L’intenzione è anche quella di ragionare sul fallimento della forma standard di alcune tipologie di cura.
In questo senso i Bugiardini sono una forma anarchica, perché non c’è una serie di istruzioni da seguire dall’inizio alla fine, in questo formato non c’è una prevaricazione del testo rispetto alle immagini, c’è anzi una forte connessione, non possono stare uno senza l’altro.
Anche per quanto riguarda la lettura non possiamo dare delle indicazioni su come leggere i Bugiardini, per alcune persone possono risultare inaccessibili, può sembrare che la parola, il testo non sia quello che ci si aspetta di leggere in un oggetto editoriale.

Cosa vi ha portato a sperimentare con l’editoria performativa?

Elena:
Il tema del lettore mi sta molto a cuore, nel senso che mi sono sempre chiesta quale sia lo spazio tra lettore e libro e la risposta è sempre stata lo spazio mentale, immaginario; però poi mi sono resa conto che c’è anche uno spazio fisico. Il libro normalmente ha una rilegatura, consequenzialità delle pagine, ha una griglia, delle impostazioni, un margine bianco intorno al testo, alcuni spazi tra le parole. Ma quante persone scrivono sui libri, li sporcano, integrano materiale, arricchiscono? Il libro, così com’è connotato, è un pacchetto, è confezionato e mi domando quanto libero sia il lettore, di agire a livello motorio sull’oggetto editoriale o quanto invece questo “confezionamento” comprometta la lettura. Io credo che, ad oggi, non basti più lo spazio mentale per assimilare i contenuti perché il nostro immaginario è sabotato e bombardato di informazioni, è saturo, mancano i riferimenti e i referenti. È una cosa che vivo io in prima persona, faccio fatica a leggere, a concentrarmi, a memorizzare, quindi penso che, a livello esperienziale, agire sull’oggetto editoriale possa portarmi ad esperire meglio il contenuto e ad assimilarlo in maniera più intensa.
Mi piace molto lavorare con oggetti editoriali che si svincolano dalla rilegatura del libro e provano a dislocarsi nello spazio, a comporsi in relazione al loro lettore, che è loro agente a livello motorio, e cioè che performa l’oggetto editoriale; per questo si parla di editoria performativa o partecipativa, perché rende il lettore co-partecipe, presente nella fase di lettura e protagonista nella costruzione del discorso. 
Inoltre credo che il tema del malessere, nel contesto sociale attuale, non sia del tutto accettato e affrontato in maniera costruttiva; basti vedere le situazioni riabilitative o i progetti di reintegrazione, non ci sono troppe soluzioni efficaci, non ci sono troppe alternative; a volte manca il desiderio di capire l’origine psico-emotiva del proprio malessere, che invece viene collegato solo a una disfunzione fisiologica. L’universalizzazione del dolore è un formato che non funziona. Penso sia interessante indagare il malessere per trovare degli strumenti pratici e creativi, volti ad affrontare un percorso terapeutico di guarigione.

Valentina:
È una connessione mente-corpo: nel momento in cui si concepisce il corpo editoriale come spazio anche corporeo, vengono riattivate connessioni mente-corpo che, come noto nelle teorie neurofenomenologiche, sono fondanti nella configurazione della persona in relazione allo spazio, e allo stesso tempo rispetto alle dinamiche con cui lo spazio è formato dalla persona.
Nel configurare queste pagine come spazio da abitare, spicca questo legame di riattivazione: è presente un substrato nuovo, di densità nascoste che si rimettono in atto con l’azione, un’azione che poi lavora con la mente, in una costante connessione.
Un altro elemento interessante del progetto è che rientri il gioco come linguaggio e stimolo alla configurazione editoriale, una prospettiva spesso difficile da integrare in lavori che si occupano di tematiche simili. È pressante anche lo stimolo, che forse da bambini avevamo di più, di buttarsi sull’oggetto e prenderlo in mano, aprirlo. 
È affascinante che si riesca, con questo tipo di formato, a creare una dinamica di gioco sul tema del dolore, si maneggia un corpo editoriale che sta in una scatola, che si dispiega con diversi fogli, che non hanno l’unità della rilegatura, sono tutti indipendenti, ogni bugiardino può vivere a sé, è organico ma non vincolato.
Il Bugiardino è un esempio di come le pratiche artistiche possano inserirsi in percorsi riabilitativi. Questo non elimina naturalmente la possibilità/necessità di un sostegno psicologico, anche farmacologico. Si lavora su un altro piano, è il ragionamento dal punto di vista di una artista che elabora una pratica.

I 140mg sono il peso effettivo dei Bugiardini?

È il peso dell’oro che ho venduto per finanziare i Bugiardini, l’oro di battesimo.
La data di scadenza è la mia data di nascita, scaduta fin dall’inizio.
C’è molta ironia nei Bugiardini, perché non ci si può prendere troppo sul serio.

Quello che si capta subito maneggiando i Bugiardini è un’ideale di un’individualità non ego-centrata e egocentrica, ma un’individualità che è esemplificazione dell’esperienza intima, totalizzante del dolore, in cui la dimensione fisica non può essere trascesa, ma anzi diventa una cosa sola con il malessere attraverso la somatizzazione, questa organicità di corpo-mente si concretizza nel vissuto individuale.
Sulla carta, nelle parole, viene reso il caos da cui si viene travolti nelle situazioni di sofferenza estrema, una caoticità impossibile da racchiudere in una rete logica e razionale. 
I Bugiardini sono un progetto editoriale nel quale vengono mostrate processi di assimilazione irrazionali, in continua comunicazione con la dimensione fattiva, contro la schiacciante razionalità che impera al giorno d’oggi, che soffoca l’universo emotivo collettivo e individuale. 
I Bugiardini sono una denuncia contro la standardizzazione del dolore e un inno all’anarchia.

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