di Ludovica Lancini
L’estate a Venezia può rivelarsi tanto piacevole quanto difficoltosa. L’amore che proviamo per quella che ormai è diventata a tutti gli effetti la nostra città rimane il medesimo, ma, mentre le sue calli sono invase da turisti e curiosi, le mostre strabordano di visitatori e la Biennale porta con sé un numero sempre maggiore di critiche, trovare un’oasi di calma e tranquillità sembra essere una possibilità ormai lontana.
Se sentite la necessità di evadere, ma non sapete come fare, forse non avete notato che, nel bel mezzo della Laguna, è spuntato un albero. Sì, proprio un albero, nello specifico un cipresso calvo, il taxodistichum per i più pignoli. È il protagonista assoluto di Arena for a tree, dello svizzero Klaus Littmann, un percorso a tappe che invita i visitatori a relazionarsi con una particolare specie di pianta, diversa in ogni occasione. Per la prima volta il progetto è entrato a contatto con l’acqua, mettendo in luce la dimensione ecologica di quella che ormai si è rivelata essere la merce più preziosa di questa terra. E chi poteva farsi portatrice di tale compito se non la città che sulle acque ha costruito la propria storia?
Il nome del progetto e la sua forma, che ricorda un guscio di noce, non sono casuali. La natura è qui incastrata in uno spazio non convenzionale, che galleggia sulla laguna, racchiusa in un concetto spaziale che risale agli inizi della cultura occidentale: originariamente un luogo di battaglia, poi di teatro, l’arena si è sempre posta l’obiettivo di indirizzare gli occhi degli spettatori verso ciò che avviene nel suo nucleo. Nella vasca, l’acqua fornisce nutrimento agli alberi e ne accoglie i rami nella sua superficie riflettente. Pietre piatte invitano a entrare nel centro, a percorrere il breve tratto che separa le due estremità, spingendo il visitatore a guardare dritto negli occhi uno dei nostri beni più preziosi. In questo caso però non c’è potenza drammatica, ma un senso di speranza e di rinascita, che prende forma nel ciclo di vita degli alberi, sinonimo, allo stesso tempo, di radicamento e mobilità.
Incastonata nello sfondo dello storico Arsenale Nord, come una pietra preziosa, l’Arena diventa un luogo di riposo, un angolo silenzioso in cui spendere del tempo avvolti dal rumore delle onde e dal fruscio delle ali dei gabbiani, un’oasi di tregua e di allontanamento dal caos del nostro presente. Salire le sue gradinate permette di entrare in un ecosistema diverso, piccolo e intimo, in cui è possibile sostare per tutto il tempo di cui si ha bisogno. L’artista, che aveva già riempito con 299 alberi uno stadio di calcio a Klagenfurt, in Austria, in cui il trambusto e le urla cedevano il posto ad un’insolita calma, porta avanti un’azione simile anche a Venezia. Lo spazio è indubbiamente più limitato e non si entra in contatto con una quantità di verde così elevata, ma il concetto è il medesimo. E, ancora una volta, raggiunge l’obiettivo: l’arena diventa una vera e propria isola nell’isola, lontana dal vociare dei turisti e dalle lamentele dei veneziani, dissociata dalla situazione caotica in cui siamo immersi quotidianamente. Una realtà di cui Venezia avrebbe bisogno sempre, non soltanto pochi mesi l’anno.