nebula – la nebbia sottile che unisce inquietudine e onirismo

di Ludovica Lancini

In questi ultimi anni mi sono accorta di come si finisca sempre per prestare poca attenzione agli eventi collaterali della Biennale d’Arte e a tutti i suoi Padiglioni Esterni. Questa riflessione è scaturita in me qualche giorno fa quando, quasi per caso, sono capitata al Complesso dell’Ospedaletto, nel sestiere di Castello, e, incuriosita da alcuni suoni che fuoriuscivano dal portone, ne ho varcato la soglia. 

Al suo interno ho trovato Nebula, un’esposizione collettiva curata da Alessandro Rabottini e Leonardo Bigazzi, sotto l’egida della Fondazione In Between Art Film, che da sempre indaga i confini che si instaurano tra film, video, performance e installazioni, attraverso progetti che ne esplorano il dialogo. Il lavoro della Fondazione è riassumibile nelle parole della sua presidentessa, Beatrice Bulgari: “Le immagini in movimento sono uno straordinario strumento di relazione con il mondo che ci circonda: esse ci emozionano, ci informano, ci scuotono e ci fanno riflettere. La caratteristica principale della Fondazione In Between Art Film è quella di sostenere la visione di quegli artisti che, attraversando i confini tra le arti, creano nuovi linguaggi e sfidano le barriere tra le diverse discipline artistiche”.

La mostra rispecchia perfettamente le atmosfere nebulose richiamate dal titolo, che significa nebbia, quella materia sottile e quasi intangibile che non permette ai sensi di analizzare la realtà circostante in maniera certa; quella condizione metaforica in cui la possibilità di orientarsi tramite la vista si riduce, rendendo necessaria l’attivazione di strumenti sensoriali diversi. Essa esplora infatti i temi della percezione extra-visiva, attraverso otto cortometraggi che si integrano magnificamente con l’architettura non convenzionale dell’edificio, dando vita ad un labirinto invaso da rumori, ambienti bui e luci a neon. Partendo dalla Chiesa di Santa Maria dei Derelitti, lasciata in penombra, si passa ad un corridoio argentato, che ricorda quelli dell’astronave del celebre 2001: Odissea nello Spazio di Stanley Kubrick. Da qui ho seguito i cartelli e le indicazioni e sono entrata in un universo parallelo ricco di suggestioni, in un climax di angoscia che cresceva ad ogni passo. 

L’integrazione delle video installazioni con la storica struttura del Complesso dell’Ospedaletto crea un contrasto tra passato e presente, che a tratti può risultare perturbante. Gli spazi, un tempo rifugio per poveri e ammalati, sono trasformati in scenari di riflessione critica, che amplificano il senso di confusione. Disorientando gli spettatori, sfidano la loro percezione della realtà, inducendoli a confrontarsi con le proprie paure in modo inusuale.

Il trauma e la distruzione sono due degli aspetti principali che caratterizzano le sale. Tra le opere spicca Until we became fire and fire us di Basel Abbas e Ruanne Abou-Rahme, proiettato direttamente sulle pareti e sugli spigoli di una piccola stanza d’ospedale, in cui venivano ricoverati i bambini. Racconta la perdita della propria terra, che continua a perseguitare i protagonisti nel corso degli anni e che viene percepita dagli stessi come un amore proibito, una forma di prigionia. Descrive il tentativo disperato di riappropriarsi della propria identità, di riconnettersi con la comunità la cui storia è stata brutalmente interrotta, come se fosse una poesia raccontata da una voce dissonante, una melodia spezzata, la semplice impronta di qualcosa che ormai non esiste più.

L’opera che mi ha turbata maggiormente è stata quella conclusiva. Un cartello avvisa che nel video sono contenute immagini forti, che richiamano il tema della morte e del suicidio. Il piccolo corridoio che separa l’avvertimento dalla stanza effettiva è pervaso da una musica forte, uno jodel disturbante. Ma, una volta entrati, quello che ci si trova di fronte è sconcertante: l’immagine di Fritz, un bambino realizzato in computer grafica, impiccato fuori da una legnaia illuminata da quella che sembra esser un’alba autunnale. Fritz, però, non è morto: parla, apre gli occhi, canta, si muove. Tale scelta non rassicura il visitatore in alcun modo, ma genera un’atmosfera ancora più inquietante, che diventa un’agghiacciante metafora dei disagi e dei precari equilibri del nostro tempo.  
Nebula non è solo una mostra di video installazioni, ma un’esperienza immersiva, che invita il pubblico a esplorare nuove coordinate poetiche e sensoriali, facendolo riflettere sulle sfide contemporanee grazie all’intimo incontro con arte e architettura. Nella sua straordinaria fusione di creatività, memoria e critica sociale, offre uno sguardo profondo e toccante sulla condizione umana. Se Penumbra, la precedente esposizione della Fondazione, esplorava l’oscurità come soglia tra luce e buio, Nebula va oltre questa dicotomia, utilizzando la metafora della nebbia per esaminare la frammentazione psicologica, socio-politica, tecnologica e storica del tempo presente.

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