di Anna Dameri
Sono le dieci: il promemoria per le medicine squilla, come ogni mattina, rompendo il silenzio del camerino. Gaia sussulta, è chiusa lì dentro da venti minuti con gli stessi tre vestiti; uno dopo l’altro se li era provati guardandosi minuziosamente allo specchio, affamata di trovare un qualunque difetto in ciascuno, provando e riprovando. Quel trillo quotidiano aveva interrotto lo stato di trance che avvolgeva Gaia dalle cinque del mattino: non era riuscita a dormire, continuava a pensare all’invito per il matrimonio di suo fratello e, dopo una notte passata a rigirarsi tra lenzuola bagnate di sudore per il caldo, all’alba aveva deciso di prendere carta, penna e rispondere. Avrebbe potuto chiamare per dare conferma ma l’idea di parlare con suo fratello la inquietava; per Gaia significava soffermarsi su una parte della sua vecchia vita che aveva imparato a ignorare. Due ore e tre tazze di caffè per scrivere: “Il giorno 17 settembre 2021 parteciperò a questa felice celebrazione, ringrazio per l’invito”. Imbucandola, si era sentita davvero idiota.
Ora, davanti a quello specchio stretto, si osserva: il suo sguardo scorreva lungo la linea del prendisole in seta blu che indossava, si soffermava sulla morbida curva del seno, la sua mano scivolava sul contorno della scollatura e lo accarezzava: “forse è troppo sfacciata come scollatura, poco elegante, non voglio che tutti guardino le mie tette”, pensava. Quello era l’unico difetto che fosse riuscita a trovare nel vestito, per il resto era ideale: lunghezza giusta, lasciava solo intuire il fianco senza fasciarlo, evidenziando i punti forti del suo corpo e, cosa per lei più importante, nascondeva quelli che Gaia chiamava ironicamente i rimasugli maschili.
Si ossessionava: “dovrei fasciarlo, mettermi quel maledetto doppio petto rimasto nel mio armadio e fregarmene” continuava a pensare. “Alla fine ho tenuto il completo per situazioni di questo tipo, papà sarebbe contento di vedermi con quello che mi ha comprato alla laurea. Ma non so nemmeno se mi vada ancora. Per i capelli posso semplicemente dire che ho deciso di farmeli crescere.” Non riusciva a smettere di pensare a come affrontare la cerimonia: Gaia sarebbe una persona sconosciuta a tutti, anche alla sua famiglia. Erano passati cinque anni dall’ultima volta in cui aveva fatto ritorno a Bari e lì lei era sempre stata Marco. Non era mai riuscita a dire alla sua famiglia di lei stessa, della persona che sentiva di essere e del bisogno che aveva di esprimersi; secondo lei non avrebbero capito. Dopo anni Gaia era arrivata alla conclusione che non le importava se condividessero o meno le sue scelte di vita, a quel punto voleva solo sbattergliela in faccia nuda e cruda, voleva finalmente rivelarsi alle persone che l’avevano cresciuta, farsi vedere per la prima volta in vita sua come lei davvero si sentiva di essere da sempre.
Strinse il tessuto dell’abito, lo fece scorrere tra le dita: “La seta è la scelta migliore per questa rivelazione”, disse fra sè.
I passi degli invitati rimbombavano nelle navate della chiesa. Gaia era arrivata lì in anticipo e si era seduta nell’ultima fila di panchine, nella speranza di passare inosservata, con le spalle avvolte da uno scialle ocra, le piaceva lo stacco di colore che si creava con il vestito blu notte. Distratta contava il numero delle colonne, poi quello delle finestre, dei quadri, delle persone, delle candele, fino a quando il suo contare ossessivo venne interrotto da una voce: “Lei è qui per il matrimonio?” chiese un uomo. Gaia si girò, era suo fratello, la stava guardando stranito, ma il suo volto non rivelava nemmeno un misero segno di riconoscimento. Lei non voleva dirlo, in quell’istante le sembrava un’idea folle essersi presentata lì, un’azione patetica e irrispettosa verso suo fratello, ma le parole le uscirono da sole, impossibili da trattenere dopo tanto tempo: “Sono io, sono Marco”. Quell’affermazione secca portò il silenzio, le persone intorno a loro si voltarono e la scrutarono, chi la conosceva aveva un’espressione incredula, a tratti di disgusto. Si avvolse nello scialle sperando che la facesse scomparire. Cercava una briciola di solidarietà in chiunque fosse disposto a concedergliela, ma ovunque si voltava gli occhi erano puntati sul suo seno o sul basso ventre. Il silenzio del fratello le sembrò infinito, lei aveva la lingua molle e non riusciva a parlare, l’attesa di una reazione fù soddisfatta dal nonno, che senza nemmeno guardarla disse “Non sei Marco e qui non sei ben accetta”. Il resto della sua famiglia tacque, la nonna si protese verso di lei con occhi lucidi, ma a Gaia non servì altro e dopo un primo passo traballante, camminò verso l’uscita, accompagnata dal solo rumore dei suoi passi solitari che rimbombavano nella navata. “Questa è l’ultima umiliazione” continuava a pensare mentre si allontana.
Il rifiuto le fece pulsare il sangue nelle tempie, sentì montare la rabbia, ma l’odio non affiorò, non riusciva a detestare quelle persone, non le serviva per andare avanti. Ormai sentiva quel capitolo della sua vita distante, come se fosse uno di quegli album fotografici che si comprano ai mercatini delle pulci, ricchi di momenti del passato, pieni di ricordi che non ti appartengono, privi di collegamento alla propria vita. Il dolore era stato così forte che le aveva provocato una scissione col passato e la sua famiglia, il posto in cui era cresciuta, le cose che l’avevano circondata da bimba erano diventate la memoria sbiadita di una persona che lei aveva abbandonato da tempo.
Bellissimo articolo complimenti