IL BUON SERVIZIO

di Giorgio Perrig

Gianni si presentò con la sua camicia migliore. A casa non aveva un ferro da stiro, perciò prima di buttarci la pasta per il pranzo, aveva passato la pentola ricolma di acqua bollente sopra quel regalo di zia che fino a due giorni prima prendeva polvere in armadio e che ora, ben steso sul tavolino di legno, perdeva tutte le sue pieghe. Quando arrivò, la proprietaria, una donna mora sulla quarantina con una non indifferente percentuale di plastica in corpo, lo fece accomodare ad un tavolino. Aveva un accento strano, sembrava del Sud America ma diceva di essere della provincia di Mantova. Per la precisione Manaus. Il suo nome era impossibile da scrivere (il dialetto mantovano è una brutta bestia), ma si pronunciava “Stronza”.  Stronza chiese a Gianni se avesse esperienza come cameriere, Gianni rispose con sincerità e candore di no. Lei disse che andava bene. Gianni era molto contento, sentiva quei dieci euro all’ora già in tasca. Iniziato il servizio, Stronza spiegò a Gianni che quello era un ristorante un po’ particolare e pertanto i clienti andavano trattati un po’ male, perché a loro piace così. Quando uno entra, mai dargli del lei e farlo aspettare almeno dieci minuti buoni: il tempo necessario non solo a fargli dubitare che troverà posto, ma anche a fargli nascere il sospetto che, dal momento che nessuno lo caga, sia morto e diventato un fantasma senza accorgersene, come Bruce Willis nel Sesto Senso. La tavola poi dove lo si fa accomodare rigorosamente ancora sporca dal turno prima e da apparecchiarsi con lentezza disarmante davanti al cliente stesso. In particolare, la tovaglia va sbattuta come un lenzuolo quando si rifà il letto, forte e in alto. Se tra cartine e tovaglioli sono rimasti coltelli, magari quelli affilati per la tagliata di manzo, tanto meglio: la ristorazione è un evento al cardiopalma. Gli ordini poi si segnano su un blocco note e ogni cameriere deve usare un modo diverso per indicare bevande e portate. Ad esempio, c’è chi il caffè lo segna con la V e nessun altro può farlo, gli altri devono usare inventiva e trovare il loro modo. Che so, la B. Quando un certo cibo è finito, e capita spesso, non lo si dice al cliente e lo si sostituisce direttamente con il cibo più simile (a propria discrezione). Una volta portato al cliente, se questi avesse da ridire, va convinto che il piatto sia esattamente ciò che aveva ordinato. Ciò è chiaramente molto facile quando gli si portavano bigoli al ragù d’anatra anziché di cavallo, una sfida più interessante e complessa quando, per mancanza di tutte le portate in mezzo, gli si porta una pasta e fagioli anziché una carbonara. Fatta la comanda, si aggiungono sempre 25 euro di coperto, che si segna con la C. Almeno che non si sia già usata quella lettera per il vino, in tal caso la seconda lettera più logica per indicare il coperto: la W. se nell’attesa, il cliente ha voglia di stuzzicare con un po’ di pane e qualche grissino, “ve li porto subito” è la risposta standard. Ma non vanno portati mai, dopotutto, come dice la pubblicità del Campari, “l’attesa del piacere è essa stessa il piacere”. Il vino va versato in quantità minime e possibilmente macchiando la tovaglia, per darle un aspetto vissuto. Per quanto riguarda la cucina, quando si sente il campanello spesso è solo perché i cuochi lo usano come antistress. Pertanto, non va ritenuto affidabile. Di tanto in tanto controllare se è pronto qualcosa, ma sempre senza stress. Gianni era molto agile e sveglio e sarebbe stato capacissimo di portare tre piatti in una volta. Ma qui non solo non era necessario, era proprio vietato. Andavano portati uno per uno, anche se si parlava di un piattino con la giardiniera, di quelli piccoli che vanno con il tagliere. A Gianni queste regole facevano un po’ strano, ma se così funzionava il locale, tanto valeva adattarsi. Trovava anche un certo gusto in questo primo approccio al lavoro con il pubblico, per esempio era bravissimo a far aspettare i clienti, non doveva nemmeno sforzarsi, gli veniva proprio naturale. Certo, come tutti alle prime esperienze gli capitava di fare qualche errore: quando per esempio entrò una signora molto anziana che si muoveva con il deambulatore, gli venne spontaneo darle del lei. Ma per rimediare, l’aveva fatta aspettare quaranta minuti. Quella carampana. Un’altra ingenuità era stata entrare subito in cucina al suono del campanello, il caso voleva che ci fosse pronto del cibo fumante. E poi aveva segnato il caffè con una lettera assurda, tra le prime dell’alfabeto. La terza. A parte questi piccoli scivoloni, però, il più lo aveva fatto esattamente come indicato. Un po’ come i nazisti negli anni 40. E di ciò andava fiero. Finito il servizio, arrivò il momento di farsi pagare, ma Stronza era su tutte le furie: “Qui non va per niente bene, hai fatto un pessimo servizio. Facevi aspettare i clienti, gli davi del tu. Ma chi sono, tuoi fratelli? Poi non esiste che gli fai trovare la tovaglia ancora sporca al tavolo, e che gli butti in faccia quella nuova come un lenzuolo! Poi tutte le comande con lettere strane, il caffè si segna con la C! Se il cibo è finito, lo dici al cliente! Non gli dici una bugia e porti qualcos’altro! Mica sono scemi, i clienti! Chi ti ha detto di mettere 25 euro sulla comanda?? Di che cosa poi?? Sai che figuraccia che ho fatto in cassa dopo? Porta il pane quando te lo chiedono e impara a versare il vino, per carità di Dio! Quando senti la campanella, vai a prendere i piatti! E fai meno giri possibili, impara a portare tre piatti alla volta! Io capisco che è la prima volta, ma devi anche imparare a gestire la rabbia, perché non è possibile che mi chiami stronza davanti ai clienti!”. Gianni rimase abbastanza interdetto. Volle subito mettere in chiaro le cose: quando l’aveva chiamata Stronza era con la S maiuscola, come il suo nome. Non certo con la s minuscola, come l’insulto in italiano. Chiarito quel malinteso, per il resto le diede pienamente ragione. Di sicuro aveva capito male lui una serie di cose, d’altronde non era mai stato bravo ad ascoltare le donne. Anche quando la sua fidanzata gli chiedeva di fare la spesa, dimenticava sempre qualcosa. Pertanto, fece un mea culpa e si tolse il grembiule con aria affranta. Fu allora che Stronza lo guardò con sguardo serio e disse “però cazzo se hai la stoffa.”. Gianni la guardò confuso. “Dal momento che sei entrato qui ho capito che, se ti metti d’impegno, puoi diventare un signor cameriere. Certo, non a 10 euro all’ora. Inizierai con tre. E ringrazia che ti pago, dovrei far pagare a te per tutti i danni che hai combinato.” Gianni annuì serio. “Sarai in prova finché non diventi bravo, gli standard di questa bravura sono un segreto che so solo io e non posso rivelarti al momento, ma abbi fiducia. Un giorno, non chiedermi quando, se ti impegni con tutto te stesso e dai la vita per questo ristorante, ti farò un contratto. A chiamata. Se conti Tfr, tredicesima e salcazzi sarà quasi come se facessi 10 euro all’ora. Ci stai?”.  Gianni le strinse la mano entusiasta e uscì dal locale. Finalmente una datrice di lavoro onesta. Era al settimo cielo. Tornò a casa, si divorò gli avanzi della pasta del pranzo e intanto, mentre faceva due conti in tasca, pensò tra sé e sé: “Che bello! Di questo passo, se risparmio facendo un solo pasto al giorno e mi muovo sempre a piedi, verso i 60 anni potrò smetterla di chiedere soldi ai miei.”.

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