ultima notte in corsica

di Anna Dameri

Sono le dieci di sera, è da stamattina che il Libeccio tira. Con la sabbia umida tra le dita dei piedi cammino sul sentiero angusto che si articola senza cartelli nella fitta macchia corsa. Davanti a me la luna illumina la schiena arrossata della Bea, dietro sento il respiro affannato dell’Elva. Abbiamo lasciato la spiaggia al tramonto, volevamo goderci l’ultimo giorno di quella vita un po’ selvaggia. 
La camminata per tornare alla macchina è stata faticosa dopo una giornata di sole e vento forte, la pelle è tirata, lievemente imbiancata dal sale e i muscoli sono molli per la stanchezza. Mi rattrista pensare di tornare al bungalow, fare la valigia e pulire ogni traccia della nostra permanenza. 
Sento una cerniera aprirsi, una mano frugare freneticamente, poi un verso sommesso e un’imprecazione. Mi volto verso l’Elva, non capisco se il pallore della sua faccia sia fisico o dovuto alla luce della notte, ma i suoi occhi sono sgranati, complessivamente la sua espressione esprime panico. Non ci dice nemmeno di aver perso le chiavi, non c’è bisogno. Subito iniziamo a discutere su dove, come e quando le chiavi della macchina fossero state perse. Inutile, ormai sono perse. 
Il Libeccio ha scacciato il caldo del giorno e portato un freddo umido. Il telefono della Bea, l’unica che lo ha carico, non ha nemmeno una schifosissima tacca, tipica situazione in Corsica. Aspettare nel parcheggio terroso fino alla mattina è fuori discussione, troppo freddo per coprici con solo i nostri teli. L’unica soluzione è camminare fino al bungalow, sono circa venti chilometri. 
Proseguiamo per la strada sterrata secondaria che porta a quella principale; l’unico suono degli arbusti che sfregano tra loro viene sovrastato all’improvviso da un tamburellare ritmico, il rumore si avvicina, diventa uno scalpitare. La Bea si blocca, tende l’orecchio, di scatto ci guarda e urla “Cinghiali! Correte!”. Dobbiamo trovare un albero su cui salire, accovacciarci sulle rocce non servirebbe a niente, quegli infami sanno salirci sopra e ormai ci stanno inseguendo. Mi sento tirare per la maglietta, l’Elva ha trovato un albero su cui salire; io che sono la più alta isso sul ramo più robusto tutte e due, poi mi tirano su. Pochi secondi dopo i cinghiali arrivano, fiutano e iniziano a grugnire. Siamo bloccate. 
La Bea si mette a ridere, il volto illuminato dallo schermo del telefono: ha due tacche. Chiama i proprietari del campeggio, con tono concitato chiude la telefonata, respira profondamente, le parole escono con sollievo “Arrivano, dobbiamo aspettarli qui”. 
Dopo svariati minuti i cinghiali, stanchi di aspettare la nostra discesa, vanno via ma noi non abbiamo il coraggio di calarci dal nostro rifugio. Non so nemmeno quanto tempo sia passato, vedo delle luci agitarsi nella macchia e sento qualche grido per spaventare gli animali nei dintorni: sono arrivati. 
La tensione si sprigiona in una risata violenta, rido e non riesco a smettere, rido fino a quando non arriviamo alla porta del bungalow.
Nessuno a casa avrebbe creduto a questo insolito inseguimento.

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